Udite, udite, nelle cronache quotidiane che ci riportano la difficile situazione in cui versa il settore siderurgico, si ritorna a parlare di Piano nazionale per l’acciaio.
Improvvisamente rivedi il film di quella che è stata la “meravigliosa” stagione delle privatizzazioni nella siderurgia pubblica, I cui esiti sono ben rappresentati dalle crisi dell”Ilva a Taranto, per non dire di Piombino e la recente chiusura dell’area a caldo della ferriera di Trieste nel nostro estremo nord-est.
Esiti di quella che è stata una vera e propria svendita della siderurgia pubblica che non a caso un antico testo definì moderna siderurgia sul mare. Stanno qui le radici che hanno portato all’esplosione della questione ambientale e a far saltare il rapporto tra attività siderurgica e tutela della salute pubblica e dei lavoratori. È utile ricordare come sono avvenuti i processi di privatizzazione della siderurgia, allora c’era in campo la “furia antistatalista” (ben presente) e la corsa alla riduzione dei costi, con questo mix di ideologia di mercato e di “piccolo è bello”, si avviò lo smantellamento del settore pubblico di cui Piombino, Taranto, Terni, (e fino a poco fa anche Trieste) sono i sopravvissuti. I risultati iniziarono ben presto a farsi vedere, in particolare sotto l’aspetto della tenuta ambientale.
Chi si opponeva al disastro ambientale veniva tacciato di “furore antindustriale”, ed è ormai storia di oggi. Le contraddizioni aperte oggi nel tessuto produttivo e sociale sui territori, hanno una radice diretta negli esiti nefasti dei processi di privatizzazione della siderurgia pubblica che è sta svenduta a quello che è stato chiamato “capitalismo straccione”, che quando serve si riscopre statalista.