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Pattuglie “anti-italiani” al confine orientale: il Coronavirus smaschera l’Europa che non c’è

di Giorgio Monteiro

Pattuglie slovene “anti-italiani” nei boschi e sui sentieri del Carso per evitare lo sconfinamento dei presunti untori del Belpaese. Migranti a centinaia, invece, passano indisturbati lungo tutta la Slovenia per approdare in Italia, a Trieste, finendo in tendopoli per la quarantena prima e centri per l’accoglienza diffusa poi: più di 500 in 4 settimane, tutto a spese dell’Italia.

Il confine orientale ai tempi del Coronavirus più che seppellire malati in un cordoglio univoco senza bandiere, disseppellisce vecchie ruggini. Totem dimenticati che riaffiorano dalla decomposizione dove un tempo passava la cortina di ferro. Genti che ricordano ancora le divisioni del ‘900 – per averle vissute sulla pelle o sentite raccontare da genitori e nonni – avevano imparato a riaccomodare la memoria. Ora, in un paio di mesi, si ritrovano divise. Una Slovenia di confine in grave crisi economica – proprio perché regge gran parte delle attività economiche con i denari dei trasfertisti nostrani (tra ristoranti, negozi e pieni di benzina a prezzo vantaggioso) – e una Venezia Giulia isolata geograficamente e incazzata nera per la cintura di cemento attorno alla gola: quei jersey ai valichi che pesano sullo stomaco a chi le barriere, davvero, non le può più sopportare.

Ed ecco che la policija – o milica come la chiamano i giuliani – che si occupava di contrabbando d’armi durante la Guerra dei Balcani e più di recente di antiterrorismo, ora inseguirà runner in gonnella e ciclisti della domenica rei di aver sconfinato per qualche decina di metri un valico agricolo. Confini sepolti dalla storia che molto spesso non presentano né bandiera, né cartelli, né jersey, né alcuna delimitazione. Drzavna meja, confine di Stato, è scritto sui cartelli che compaiono dalla vegetazione. Peccato che nascosti dalle fronde non siano nemmeno visibili a chi corre o pedala in mountain bike. Peccato che nella prima fase del contagio i valichi principali siano stati chiusi senza nemmeno alzare il telefono per avvisare i vicini. Peccato che persone nella cerchia dei contagiati in Italia siano diventati “inesistenti” secondo alcune municipalità d’oltreconfine dove si recavano giornalmente ad accompagnare i figli a scuola. Peccato che decine di italiani residenti in Slovenia riferiscano di controlli pari a zero nel periodo del picco dei contagi.

Peccato che una grata di ferro divida nuovamente e inutilmente Gorizia e Nova Gorica, visto che centinaia di lavoratori transfrontalieri hanno sempre continuato a spostarsi fra le due porzioni della città: la Berlino postmoderna del Nordest dove il disagio dei cittadini si consuma interiormente. Non è un contagio virale ma di pancia: l’insofferenza diffusa di fratelli separati forzatamente in base a una riga per terra, ormai cancellata dal tempo, ripassata in fretta e furia al “Checkpoint Covid” di piazza Transalpina.

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