E’ sciocca, ipocrita e se vogliamo persino triste la decisione, da parte di HBO-Warner di togliere, momentaneamente, “Via col Vento” dal catalogo dei film a disposizione on demand giacché conterrebbe una visione razzista e denigratoria della comunità afroamericana.
E’ sciocca poiché il film di Victor Fleming, uscito nel 1939 (lo stesso anno di “Ombre Rosse” e “Il mago di Oz”), è una delle pellicole più belle mai realizzate, con un primo tempo narrativamente perfetto, e perciò privare gli spettatori della possibilità di vederlo per la prima volta, o di rivederlo, significa di fatto impedire loro di assaporare un capolavoro.
E’ ipocrita giacché denota, una volta di più, quanto Hollywood sia sempre più prona nei confronti di una concezione “politically correct” che, stanti i danni che sta producendo, dovrebbe combattere. Invece, attori, produttori, musicisti, scrittori, persino giornalisti, cavalcano come mai prima d’ora un conformismo d’accatto che, in altri tempi, il cinema con il quale siamo cresciuti avrebbe attaccato e sbeffeggiato.
Per dirne una, Bryce Dallas Howard, figlia di Ron, ripudia ora di aver preso parte, almeno dieci anni fa, ad un film, “Help”, giacché portatore di una visione esclusivamente bianca della questione razziale: all’epoca, non se ne era resa conto? E in ogni caso, non sembra aver avuto problemi ad intascare il compenso. E’ triste, perché nasconde un dato che, da quelle parti, conviene tenere sottotraccia. In altri tempi, Hollywood avrebbe combattuto gli episodi di razzismo sempre meno strisciante che da qualche anno caratterizzano le cronache che arrivano da quel paese, ma anche una presidenza che parecchi ritengono imbarazzante, attraverso i film, non piegandosi ad un pensiero unico dannoso perché in sé non porta alcun elemento di critica.
Oggi invece alcuni attori un tempo gloriosi come Robert De Niro reputano sia sufficiente offendere il presidente Trump in pubblico per sentirsi la coscienza a posto e ottenere una standing ovation senza colpo ferire, attrici irriconoscenti autoproclamatesi paladine di non si sa bene cosa approfittano di ogni occasione per lanciare strali qua e là manco fossero Hagen di Tronje. E la veridicità del racconto cinematografico può andare a farsi benedire, sacrificato nel nome della convenienza.
Tutto cominciò con Steven Spielberg, che nel 2005, per non urtare la suscettibilità di eventuali spettatori musulmani, realizza un film come “Munich” senza collocare la vicenda nel suo spazio temporale, ovvero la strage di atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco nel 1972 perpetrata da un commando palestinese e si scorda di raccontare
che, allora, tutto il mondo riconobbe a Tel Aviv non solo il diritto ma persino il dovere di vendicarsi.
Qualche anno fa, un bruttissimo film dedicato a Maria Stuarda vide, fra gli interpreti, un attore afro-americano nel ruolo dell’ambasciatore di Scozia presso la corte inglese; nell’agghiacciante remake di “Assassinio sull’Orient Express” Kenneth Branagh fa viaggiare un medico di colore in prima classe su un treno di lusso negli anni Trenta del secolo scorso…. Gli esempi potrebbero continuare.
Intendiamoci, non tutti si fanno mettere i piedi in testa. Anni fa, dopo l’uscita del film “Flag of our fathers”, Spike Lee accusò il regista di razzismo, per non aver inserito alcun soldato di colore all’interno della narrazione. Piccolo particolare: lo squadrone impegnato nella battaglia di Jwo Jima che innalzò la bandiera statunitense, episodio al centro del film, non comprendeva soldati di colore. “Spyke Lee dovrebbe chiudere quel ***** di bocca”, disse il regista del film.
Inutile dire chi fosse, quel regista: Clint Eastwood.