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“Il lungo addio”

Per un artista, soprattutto per un attore, il passo più difficile non è scegliere il film successivo, quanto piuttosto comprendere quando è il caso di ritirarsi.

A memoria, soltanto Cary Grant intuì che, dopo un film delizioso, “Cammina, non correre” (che fece anche una bella figura al botteghini), fosse arrivato il momento di salutare. A sessantadue anni, decise dunque di dare l’addio al set e, a parte un cameo in un documentario su Elvis Presley, non girò più film.

Eppure, se mai c’è stato un attore sempre presente nell’immaginario collettivo, in virtù di una carriera fatta di scelte eccellenti, è proprio il protagonista di “Notorius”.

Forse, la scelta di non mostrare il proprio inevitabile e progressivo invecchiamento è alla base di tutto ciò e forse la timidezza, nota, dell’attore può avere influito su una decisione così drastica.

Molto, negli anni, si è raccontato sul ritiro di Greta Garbo, che in realtà non venne mai ufficializzato; tant’è vero che la Divina regolarmente riceveva copioni (che immancabilmente rifiutava). Laddove parecchi attori, raggiunta un’età ragguardevole, continuano a recitare.

E qui sorge un problema, a tratti drammatico. E’ proprio necessario?

Facciamo qualche esempio.

Katharine Hepburn, dopo l’Oscar per “Sul lago dorato”, girò un film non irresistibile, “Agenzia Omicidi”, qualche tv movie, fino al remake di “Un amore splendido” dove apparve fragile e insicura.

Bette Davis, dopo una malattia devastante, girò un giallo tratto da Agatha Christie, un bellissimo film, “Le balene d’agosto” e un horror sconclusionato che fra l’altro non portò a termine per dissidi con il regista.

Walter Matthau, negli anni Novanta, conobbe una rinnovata popolarità ma il suo ultimo film, “Hangin’up”, ce lo consegna in un luogo malinconico, forse più adatto a Jack Lemmon. Il quale fra l’altro, nella sua ultima apparizione cinematografica, un cameo ne “La leggenda di Beggar Vance”, pronuncia una battuta sola, “Magic Time”, che fra l’altro era la frase che ripeteva come un mantra prima di ogni ripresa.

James Cagney fu costretto da un agente senza scrupoli a tornare sul set vent’anni dopo il ritiro, John Wayne potè congedarsi dal pubblico e dalla vita con un ruolo per certi aspetti autobiografico e il risultato fu magnifico. Gregory Peck affidò ad un documentario gli ultimi fotogrammi della sua carriera.

Burt Lancaster uscì di scena in modo eccezionale, con “L’uomo dei sogni”, e i suoi ultimi secondi sullo schermo sono davvero memorabili.

Potremmo continuare a lungo, e dovremmo necessariamente segnalare anche i casi di carriere che proseguono senza risentire del passare degli anni. Angela Lansbury, a novantadue anni, impreziosì lo scaltro sequel di Mary Poppins, Clint Eastwood, anch’egli ultranovantenne, sforna film a ripetizione e la sua capacità di raccontare il suo paese non è affatto appannata.

C’è, insomma, da parte degli attori, la voglia, se non la necessità, di non interrompere il proprio rapporto con il pubblico a costo di mostrarsi invecchiati e deboli. Ma forse c’è anche, da parte del pubblico, la voglia, se non la necessità, di essere confortati in qualche modo da quella sorta di immortalità garantita dallo status di “star” che va oltre il dato meramente anagrafico e che consente di non scorgere alcun segno di invecchiamento anche quando evidente. Un atteggiamento che, forse, potrebbe essere riassunto dalla parola “riconoscenza”.

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