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Papa Francesco in Iraq

Iraq e il Papa: il racconto dal fronte dei cristiani perseguitati

La prima volta che mi recai in Iraq era l’ottobre del 2016. La guerra contro lo Stato islamico era all’apice e l’offensiva dell’esercito di Baghdad con il supporto dei valorosi Peshmerga curdi stava dando i suoi primi risultati.

Riuscii ad entrare a Qaraqosh, la più grande città cristiana irachena. Erano passati pochi giorni dalla liberazione dalle bandiere nere dell’Isis e i segni della devastazione erano ancora evidenti. Tutto era stato distrutto e divelto. Entrammo con una macchina delle milizie cristiano-assire e venivamo scortati da vicino dai soldati – molti dei quali avevano servito sotto Saddam Hussein – perché c’era ancora il rischio della presenza di alcuni cecchini del Califfato e soprattutto non potevamo circolare liberamente perché tutta la città era stata minata e non era ancora stata interamente bonificata.

Quando varcai la Chiesa dell’Immacolata Concezione, la stessa da dove Papa Francesco la scorsa domenica ha tenuto l’Angelus, l’immagine che mi si impose davanti ai miei occhi fu sconcertante. L’altare e il soffitto della chiesa erano stati bruciati, le colonne imbrattate da delle sigle con i nomi dei mujaheddin turchi che avevano occupato la chiesa fino a qualche ora prima. Nel cortile della chiesa, al centro, giaceva ancora un’antichissima Bibbia scritta in aramaico, l’antica lingua di Gesù Cristo. Bruciata. Le statue sacre erano mozzate e decapitate. I tagliagole le utilizzavano come bersagli per addestrare i loro fucilieri.

Il Generale Bannam Abboush, ci fece vedere la sua casa – o quello che ne rimaneva. Della stanza da letto si poteva solo riconoscere alcune mura. Continuando il nostro percorso nella città fantasma dove prima viveva una fiorente comunità cristiana, vedevamo le croci abbattute, bandiere del Califfato e altre sigle islamiste incise sui muri. Mi avvicinai a una ragazza che stava pregando e – irrompendo forse maleducatamente nel suo momento di raccoglimento – le chiesi cosa stesse facendo. Pregava davanti alla sua casa, ora un cumulo di macerie, che suo padre aveva costruito mattone su mattone per donarla un giorno a lei, dandole così un futuro in quella terra. Spiegandomelo incominciò a piangere dicendomi
che lei era riuscita a rifugiarsi a Erbil, nel Kurdistan iracheno, ma non avrebbe voluto tornare a vivere là perché i suoi vicini, all’arrivo dell’Isis, avevano denunciato la sua famiglia cristiana condannando a morte i suoi genitori e aveva paura che questo, un giorno, si sarebbe potuto ripetere.

Dopo questa prima esperienza, ritornai altre tre volte nel nord dell’Iraq a documentare le sofferenze di quei cristiani che tanto soffersero durante la guerra contro il Califfato e di cui molto poco parlammo in Europa e nell’Occidente.

Ora vedere gli stessi fedeli, non vergognarsi più di portare una croce e poter festeggiare l’arrivo di Papa Francesco, vederlo pregare nelle loro chiese ristrutturate, con i simboli della Città del Vaticano, con i manifesti con la faccia sorridente del Pontefice e sentirli urlare che non vorranno più abbandonare le
loro terre da millenni cristiane, solo questo fa capire l’importanza storica della visita del Papa nella terra di Abramo.

Un Santo Padre, spesso criticato, ma che ha avuto il coraggio di intraprendere un viaggio memorabile, con diverse incertezze sulla sicurezza anche personale e non annullandolo nemmeno considerando il periodo di pandemia.

Un evento senza precedenti che, anche per l’incontro con la massima guida dei mussulmani sciiti Al-
Sistani, segna un altro traguardo per il dialogo interreligioso. Ora, dopo il viaggio di Papa Francesco, sta a noi non dimenticare nuovamente i nostri fratelli cristiani che soffrono, non solo in Medio Oriente, ma in tutto il mondo dalla Nigeria al Pakistan, dall’Iran alla Cina.

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