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Matteo Salvini, leader della Lega, al Senato

Lega di Nord e di Sud, ma non va demonizzata

Non “demonizziamo” la Lega.

L’Italia del Nord, è la terra della Lega che è stata votata da più elettori che non la DC ai tempi della sua egemonia. Dati delle ultime europee. Il 40,7 % in Piemonte, Lombardia e Liguria e il 41% in Veneto, in Friuli-Venezia Giulia e in Trentino con un’Emilia che resiste, e la ferma, in quelle terre, al 33 % e le abbassa la percentuale nel collegio del Nord Est. Medie elettorali ma con punte del 49,66 per cento in Veneto, del 43,3 per cento in Lombardia e del 42,56 per cento in Friuli-Venezia Giulia.

Una Lega che ha strappato persino il Trentino dopo anni di centro-sinistra e del suo buon governo di impronta mitteleuropea, rassicurante e inclusivo. Bastano a spiegare questi successi l’irruenza del “comandante”, l’invasività mediatica della sua “bestia”, gli slogan che hanno catalizzato sentimenti diffusi contro gli immigrati, le tasse, la “legge Fornero” e per una maggiore sicurezza?

Gli avversari la tacciano costantemente di “populismo” in un significato negativo. Nel “Le dictionnaire des populisme” di Dard, Boutin e Rouvillos ci sono, in 1200 pagine e in 260 schede, e tante ipotesi di classificazione del fenomeno. Forse ha parzialmente ragione il filosofo Renée Fregosi che scrive: “prende corpo dall’auto vittimismo e necessariamente individua dei responsabili”.
Ma non basta. C’era un sentimento preesistente sul quale si è innestato quello che il politologo francese Dominique Reynié definisce il “populismo patrimoniale” che non è solo la richiesta di difesa del benessere materiale ma anche di un bagaglio culturale e di un modo di vita.

Il substrato è quasi sorprendente.
Se si vanno a verificare i voti della Lega nei paesi in cui si svolge il racconto di Fenoglio del partigiano Johnny si capiscono molte cose. Non è la prova di una Lega “costola della sinistra”, come azzardò D’Alema, ma di una spinta popolare a diventare, attraverso i Comuni, “Stato” quando questo va in crisi. “Quando il Leviatano (di Hobbes, ovviamente) si frantuma i singoli si fanno sovrani” (citazione da Luigi Filipetta “L’estate che imparammo a sparare”). È successo durante la resistenza depurando la storia dai miti, poi, parzialmente, ai tempi di Bossi e del crollo della prima repubblica; è diventata un’onda di piena nella crisi della globalizzazione.

Tanti sindaci, assessori, militanti sono uniti da un sentimento antico su cui è germogliato il rifiuto, attuale e nuovo, delle politiche tipiche della sinistra: l’internazionalismo, lo stato sociale nella sua declinazione classica, la ridistribuzione delle risorse che sembra dimenticare i nuovi poveri “italiani” a favore degli immigrati. I leghisti si presentano come gente di popolo, e si ritrovano in una immediata sintonia territoriale superando ogni distinzione di reddito. È un tipico amalgama interclassista che fa dire e pensare le stesse cose al piccolo industriale e ai suoi operai, a tanti giovani sottopagati e precari e agli artigiani, piccoli professionisti, commercianti.

Per loro la società “inuguale” è quella che ti spossessa del tuo modo di vivere, delle tue sicurezze e non crede alle soluzioni di una sinistra che, al Nord, è arroccata nei quartieri alti, teorizzando l’integrazione e distingue, filosofeggiando, fra paure reali e paure percepite.

Qualcuno ha scritto che alla sinistra europea è caduto in testa l’architrave delle sue proposte non avendo capito che gli elementi identitari del partito delle passioni sono più forti, almeno per ora, dei programmi economici e delle analisi sofisticate dei partiti della ragione. Al fondo c’è una logica ricorrente: una forza politica ha consenso se sa capire i bisogni dei propri cittadini e diventa forza di governo se sa dosare, con intelligenza, ragione e passione.

E’ questa la vera sfida della “nuova” Lega che dovrà tenere assieme le richieste economiche e sociali del Nord Italia con quell’amalgama antistatalista che innerva le aspettative del Sud.

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