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L’esercito degli asterischi * dove c’erano uomo e donna

Circola da qualche mese una nuova moda per chi non vuole perdere l’occasione di sentirsi migliore della massa ignorante e insensibile: mettere l’asterisco alla *fine dei nomi al fine di toglierne il maschile o il femminile.

Se fino a qualche anno fa questa è stata una timida battaglia per la parità di genere contro il patriarcato, oggi essa assume il valore dell’inclusività verso chi ancora non si riconosce come membro di uno specifico sesso. Secondo questa logica, utilizzare un asterisco rappresenterebbe una sorta di rispetto verso chi soffre per una discriminazione sociale. Dal mio punto di vista, le discriminazioni sono sempre tossiche e come tali dovrebbero essere curate e trattate.

Detto questo però, se si pensa che un asterisco possa lenire il dolore di una persona che soffre perché non si riconosce in un genere sessuale o perché è stata surclassata in quanto donna, siamo davvero fuori strada.

L’asterisco non è poi tanto diverso da un nuovo prodotto che viene lanciato sul mercato: te lo trovi pubblicizzato sui giornali o in tivù, magari sulle prime nemmeno ci fai caso, poi qualcuno ne parla, lo vedi sugli scaffali del supermercato e poi, un bel giorno, decidi che ne hai estremo bisogno. Ma può anche capitare che te lo ritrovi dentro al carrello perché eri distratto e tuo figlio te l’ha messo di soppiatto e, pur di non far brutta figura con la cassiera, fai finta di nulla e lo compri.

Come accadde quando partì la famosissima campagna pubblicitaria per lanciare i buonissimi biscotti alla crema di nocciole, mi chiedo: chi è che ha immesso sul nostro mercato lessicale questa roba? Ma soprattutto: qual è il suo intento? L’asterisco ci vuole tutti uguali e il suo scopo, nemmeno troppo nascosto, è quello di annullare le differenze individuali. Se ci guardassimo attentamente attorno, ci renderemmo conto di come ormai le nostre città tendano sempre più ad assomigliarsi, con le stese catene di fast food o gli stessi mega store, gli stessi colori dei rider che sfrecciano per le nostre vie.

I nostri centri storici stanno prendendo le sembianze dei “non luoghi”, ovvero come le stazioni, gli aeroporti o i centri commerciali di tutto il mondo che sono concepiti con la logica di orientare chi vi transita. Stiamo cedendo la nostra identità per diventare anche noi mainstream, anch’esso un “non luogo” della personalità dal quale uscire è pericoloso perché fuori da questo schema c’è solo vuoto e solitudine.

Niente più app, niente più reality show, niente più serie tv. E’ finita! Allora meglio rientrare nei ranghi e abbracciare la nuova moda per abbattere anche gli ultimi residui di civiltà: le differenze. Asterischiamoci il nome, la professione e perché no?, togliamoci pure il cognome di quel sessista di “Genitore 1”! Che poi: perché assegnargli proprio il numero 1, quello più importante?

Tagliamo le radici e reinventiamoci ogni giorno in un eterno e costante presentismo.

Di sicuro chi ha lanciato questo nuovo prodotto ha tutto l’interesse che se ne parli e se ne discuta, anche in forma ironica o contraria. Purché entri nelle discussioni, poi la cultura dell’omologazione penserà al resto. Il consumatore non deve pensare mentre striscia la sua carta luccicante. Anzi, non deve avere nemmeno la percezione che la sua carta si muova: “Ci pensiamo noi a lei, signore…”

Annullare le differenze non lenisce alcun dolore, lo invalida perché non lo riconosce. E se un dolore non viene riconosciuto non può essere trattato, curato e amato.

Il dolore, come i pesi che portiamo sulle nostre spalle, fanno parte delle nostre vite, fanno parte della nostra dignità di esseri diversi ed irripetibili.

Smettiamo di far girare la ruota ed usciamo dalle nostre gabbiette full optional, siamo ancora in tempo.

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