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Sergio Mattarella e Borut Pahor

Mattarella e Pahor a Trieste: un sorso di pacificazione già andato di traverso

Pacificazione storica o riemersione di vecchie ruggini? La visita dei due Presidenti della Repubblica di Italia e Slovenia a Trieste il 13 luglio, in occasione della restituzione alla comunità slovena del Narodni Dom (ex Hotel Balkan), sembra l’ennesimo passo della narrazione emorragica di un confine orientale dove la parola “fine” dell’acredine si concretizza solo se, di certi fatti, non si parla più.

Quando, invece, vengono rimessi sul tavolo hanno lo stesso effetto di una scatola di cibo scaduto: mal di pancia. Attenzione qui non si tratta di dimenticare nè di nascondere, ma su un confine ridiventato tale nella nuova triste Europa dei migranti in arrivo dalla rotta balcanica e del Coronavirus che divide i Governi ancor di più di questi ultimi, calare pure la carta del riconoscimento dei reciproci torti ha lo stesso effetto di un accendino su una balla di fieno secca.

Polemiche, accuse e ritorno alle divisioni. Del resto dopo essere rimasti isolati, reclusi reciprocamente ai tempi del Covid da confini che non corrispondono alla vita reale – da una parte e dall’altra – invece di aver imparato la tolleranza reciproca nel segno del “siamo tutti nella stessa barca”, sembra invece che abbiamo tutti qualche chilo in più di intolleranza da proporre al vicino di casa.

Dunque l’incolpamento dell’altro diventa l’esercizio più diffuso e facile del momento: che si parli di economia, immigrazione, contagio e – perché no – storia che tutti conoscono ma, salvo rare eccezioni, solo dalla propria parte, dal proprio punto di vista, dal racconto dei propri nonni e dai propri libri. Ecco perché foibe, dove finirono migliaia di istriani nel dopoguerra, e torti commessi dal cosiddetto “fascismo di confine” alle popolazioni slave sono bombe incendiarie nel dibattito interno di una MittelEuropa che invece di avanzare, arretra.

Le corone d’alloro che Mattarella e Pahor deporranno al monumento della Foiba di Basovizza e a quello dei fucilati sloveni del Tigr entreranno certamente nella storia, ma difficilmente faranno breccia nei cuori di quanti ancora in vita hanno provato sulla loro pelle, o su quella dei propri avi, cosa significhi essere figli di quelle storie tragiche. L’imperativo della diplomazia che ha concretizzato il “do ut des” carsico, ha scontentato tutti perché la memoria condivisa è semplicemente irrealistica. Se poi gli stessi testimoni delle atrocità “l’inchino dei presidenti” non potranno nemmeno vederlo di persona, causa il rigidissimo cerimoniale di Quirinale e Lubiana (con norme Covid che fanno da foglia di fico a contestazioni altrimenti certe), ecco che l’unica cosa su cui si trovano d’accordo partigiani e esuli, titini nostalgici e nazionalisti nostrani è l’incazzatura.

Quella di genti che, in realtà, quando si ritrovano in un osmiza del Carso alzano i bicchieri concedendosi un “salute” o un “ziveli” a vicenda, servendosi a vicenda di prosciutti e formaggi tipici, sorridendo e vedendo i figli giocare assieme sul prato come fratelli.

Ma quando si tocca la storia il vino, purtroppo, rischia ancora di andar di traverso a molti.

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