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“Moby Dick” il romanzo che non si deve giudicare

Il supplemento settimanale di uno dei più importanti quotidiani italiani prosegue, indomito, con i tornei che mettono a confronto testi letterari, in una serie di gare “ad eliminazione diretta” che servono soltanto per realizzare titoli ad effetto quando ad essere eliminato risulta un romanzo ritenuto intoccabile.

Mesi fa, quando si contrapponevano i capisaldi della letteratura statunitense, a fare le spese di tale sciocco giuoco al massacro, è stato “Moby Dick”: ovvero un testo che, per tutta una serie di ragioni, manco dovrebbe essere ammesso ad una “competizione” del genere.

Intendiamoci, “Moby Dick” non è un libro semplice. Molti lo approcciano credendo sia un romanzo d’avventura, giusto un po’ più complesso rispetto a “L’isola del Tesoro”.

Le prime perplessità sorgono in pratica subito, con quelle pagine di pura citazione, e poi riemergono mano a mano che si prosegue con la lettura. Certo, sarebbe meno complicato per il lettore se, poniamo, le parti narrative fossero evidenziate in qualche modo rispetto a quelle che di fatto sono un piccolo trattato di cetaceologia (magari stampando queste ultime in corsivo): ne beneficerebbe indubbiamente il ritmo. Ma sarebbe una pura e semplice speculazione editoriale, un’operazione da guitti 

Perchè se da un lato è innegabile che, da più punti di vista, “Moby Dick” risulti slegato, è paradossalmente altrettanto vero che, alla fine, il lettore si ritrova ad avere fra le mani un unicum inimitabile: complesso sì, ma proprio per questo più che affascinante.

Il romanzo di Melville, infatti, può essere letto come la più imponente metafora sulla vita che mai sia stata scritta. Cos’è, in ultima analisi, la mastodontica balena bianca che riemerge, ferita ma indomita, se non la somma degli obiettivi che una persona si prefigge di raggiungere, a volte riuscendo pienamente a centrarli, a volte avvicinandosi quel tanto che basta per assaporarne solo il gusto, a volte mancandoli?

Persino i personaggi principali possono rappresentare, da un punto di vista shakespeariano, una sorta di compendio delle “età dell’uomo” elaborate da Jacques in “Come vi piace”. Ishmael (“Chiamatemi Ishmael” è forse l’incipit più stupefacente dell’intera storia della letteratura) rappresenta l’innocenza e la voglia di avventura che, prima o poi e magari per poco, si manifesta in ognuno di noi; Starbuck è la personificazione del rispetto per la legge e l’ordine che non sempre riusciamo a seguire ma cui tutti noi guardiamo pur sapendo che rappresenta una sfida; Queequeg, dal canto suo, assieme agli altri ramponieri, rappresenta gli strumenti a nostra disposizione per raggiungere determinati scopi; Achab è ognuno di noi, quando, pur di raggiungere una meta prefissa, decidiamo di troncare ogni contatto con i nostri Ishmael e Starbuck e decidiamo di piegare il nostro Queequeg alla nostra volontà malata e in questo modo li precipitiamo, assieme a noi, all’interno dei nostri stessi abissi.

Ne “La Tempesta”, Prospero sostiene che la vita si esaurisce nello spazio di un sogno: ma il protagonista dell’ultimo dramma shakespeariano rifletteva su di essa in un contesto decisamente più ampio, a tratti magico.

Il romanzo di Melville ci fa pensare che, in realtà, la vita vera, la vita vissuta al massimo sia compresa nell’attimo, altrettanto breve ma decisamente più intenso, in cui la balena emerge si si offre ai ramponieri.

E’ una visione decisamente più “bassa” rispetto a quella shakespeariana, certamente più prosaica e che tiene conto forse soprattutto delle nostre debolezze, nel momento in cui riteniamo, torto, siano la nostra forza.

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