Mi è sempre piaciuta l’idea di pattinare sul ghiaccio. Certo, imparare a farlo a 40 anni suonati è stato avventato oltre che rischioso. Sapevo bene che le prime volte sarei caduta ma la mia personale valutazione mi ha spinto a provare. Ne è valsa la pena.
Mi sono divertita.
La vita ci pone costantemente difronte a qualche tipologia di rischio. Viaggiare, scegliere un percorso di studi, sposarsi: sono tutti rischi. Per non parlare del rischio d’impresa, quello che ogni imprenditore affronta quando apre un’attività. Ognuno di noi ha in continuazione la possibilità di scegliere come agire e quale rischio assumersi: fa parte delle nostre libertà. A volte il “non provarci” ha conseguenze peggiori del rischiare.
Di certo è fondamentale tenere comportamenti attenti: ci aiuteranno a minimizzare la possibilità che l’evento, di cui abbiamo paura, si verifichi.
Il lockdown, che l’Italia ha usato nel 2020 come arma per combattere il Covid, ha certamente ridotto il rischio di contrarre il virus: “Se non esco di casa, il virus non mi prende”. La scelta è stata forte ma nessuno aveva ancora fatto i conti con una pandemia di tali proporzioni. Si è deciso di immobilizzare il paese per tutelare il sistema sanitario.
A distanza di un anno però le cose sono cambiate troppo poco. L’emergenza, che è un evento temporaneo, si è trasformata in routine. Durante i primi mesi del 2021 il Governo Draghi, in continuità con il precedente, ha disposto chiusure e coprifuoco, con la prospettiva che solo il vaccino avrebbe potuto separarci, definitivamente e totalmente, dal rischio. Scelta, per molti, difficile da digerire a causa dei pesanti danni economici e sociali che le misure restrittive, inevitabilmente, causano.
Anche perché con il passare del tempo abbiamo avuto modo di conoscere il nemico, individuare i comportamenti virtuosi e gli strumenti per proteggerci: distanziamento, mascherine, igienizzazioni. Certo… avremmo dovuto agire diversamente in materia di trasporto pubblico, terapie a domicilio, ospedali, scuola, tracciamenti. Avremmo dovuto fare un piano vaccinale adeguato a proteggere gli anziani. Avremmo dovuto produrre le dosi in Italia. Avremmo dovuto evitare di comprare banchi a rotelle. Avremmo forse dovuto prendere in considerazione anche la prevenzione.
Ma il punto è che oggi, in Italia,siamo poco disposti a rischiare. Non lo facciamo nemmeno quando è possibile minimizzare il pericolo e l’alternativa è “non vivere”, “non lavorare”. La paura ci ha fatto tollerare le limitazioni e non abbiamo trovato nelle Istituzioni messaggi in grado di rassicurarci, di accompagnarci pragmaticamente verso una possibile convivenza con il virus. Anche le vicende AstraZeneca e J&J testimoniano la ricerca di certezze assolute che nessun medicinale può garantire e l’Italia, oggi, non può permettersi affrontare la campagna vaccinale tra dubbi e insicurezze.
Preoccupa particolarmente la rassegnazione e il timore diffuso tra i giovani. Potremmo chiedere a questa generazione di ragazzi, che abbiamo fatto vivere per più di un anno chiusa a casa, di affrontare le difficoltà della vita? Di rischiare con un lavoro imprenditoriale? O di metter su famiglia e generare quei figli, che sarebbero essenziali, se vogliamo contrastare una curva demografica drammaticamente discendente?
In questo senso suonano come un timido incoraggiamento le novità da poco annunciate dal Presidente del Consiglio: a fine aprile, dovrebbero essere autorizzate alcune caute riaperture. Il Governo, considerati i dati in miglioramento e valutato che all’aperto il pericolo di contagio è quasi nullo, ha finalmente deciso di prendersi qualche “rischio ragionato”.