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La copertina del libro di Martone

Trieste e le Generali, la rivelazione in un libro: sede a Mogliano fu decisa prima di “Polis”

Ezio Martone ha raccolto nel libro “Il lungo viaggio del Leone di Trieste” dei contributi molto interessanti che aiutano a comprendere meglio il rapporto fra le Assicurazioni Generali e la città.

C’è una parte storica curata da Anna Millo che esamina gli anni che vanno dalla fondazione delle Generali al secondo dopoguerra con la perdita dei mercati assicurativi dei paesi dell’Europa orientale, da Aurelio Slataper che ricorda le fase di ricostruzione negli anni successivi alla seconda guerra mondiale e da Aldo Minucci che richiama l’evoluzione del modello gestionale e una “postfazione” di Tatjana Rojc che traccia il profilo di alcuni dei protagonisti, meno noti, della crescita della Società: Umberto Della Casa e Umberto Rocco che, precorrendo i tempi, ne realizzarono il sistema informatico.

La parte più allusiva e intrigante è, però, la ricostruzione (del tutto attendibile) di Aurelio Slataper, per lunghi anni a capo del servizio immobiliare di Generali, sul perché non venne realizzata la nuova sede della Compagnia in Porto Vecchio a Trieste.

Il mainstream (pensiero dominante) locale attribuisce la responsabilità della mancata realizzazione della nuova sede alla classe politica di Trieste della fine degli anni ‘80 che, per i suoi ritardi, le sue ambiguità o peggio, avrebbe quasi costretto le Assicurazioni Generali ad investire a Mogliano Veneto non avendo ottenuto il “disco verde” per realizzarla in porto vecchio.

Cosa racconta Aurelio Slataper per smentire il luogo comune che si è radicato nell’opinione pubblica. Cito: “la nascita di Polis è pertanto successiva alle decisioni di Generali di realizzare l’insediamento di Mogliano Veneto e il richiamo delle date è più che sufficiente a smentire recenti ricostruzioni tendenti ad accreditare la versione che Generali avrebbero trasferito alcune delle attività a Mogliano Veneto perché non le sarebbe stato consentito di ampliarsi in Porto Vecchio” (chi avesse voglia di leggere il libro può trovare atti e documenti che sono eloquenti: nel 1979 venne deciso di avviare il progetto di Mogliano, fra il 1980 e il 1982 vennero compiuti gli atti preliminari per la progettazione e la variante al piano  regolatore e nel 1984, ottenuto quello che allora si chiamava “permesso di costruzione”, vennero avviati i lavori e la “prima pietra” fu posata il 5 ottobre 1985.

Le Generali scelsero Mogliano Veneto (nel 1979) perché dovevano trasferire gli uffici dalle prestigiose “Procurerie” di Venezia che, per i vincoli architettonici, non potevano essere trasformate in moderni uffici che erano essenziali per lo sviluppo della società e, nel 1988, ultimato il primo lotto, venne trasferito il CED di Mestre e, poco tempo dopo, i circa 900 dipendenti della Direzione di Venezia.

Polis venne costituita nel 1986 con la partecipazione delle Generali e di Fiat Impresit, quando Mogliano era già in fase di costruzione. È realistico pensare che una grande società che ha già investito rilevantissime risorse per acquistare i terreni, pagare le progettazioni e già avviato il cantiere lo blocchi?

Ma è altrettanto indubbio che, seppur impegnata su Mogliano Veneto, Generali abbia deciso di cominciare anche la collaborazione in Polis che non ha portato ad alcun risultato dopo aver investito nella costituzione della società e aver sostenuto l’onere della progettazione della nuova sede da parte
dell’architetto Gino Valle. Vanno quindi capiti i motivi di questa rinuncia.

Anche su questo aspetto è chiarissimo il racconto di Aurelio Slataper. Ne attribuisce le cause ad una pluralità di ragioni. Infatti, ricorda lo scontro fra Generali e Fiat Impresit (avvenuto a Torino alla fine di una riunione e dopo che Fiat Impresit buttò sul tavolo una bozza di contratto) e scrive “Polis non è decollata per il semplice fatto che si voleva riversare gli oneri della riconversione del Porto Vecchio su Generali cosa che nessun avveduto amministratore del Gruppo avrebbe mai potuto consentire”.

Poi aggiunge che l’investimento in Porto Vecchio non era più strategico e l’orizzonte si stava già spostando sul centro direzionale di Napoli e su quello che sarebbe diventato Citylife a Milano. (e questa valutazione mi riporta a Minucci e alle sue riflessioni sulla formazione dei gruppi dirigenti: da un cursus tutto interno alla Società e quindi legati alla città a manager interessati agli utili di bilancio in una dimensione globale).

Ulteriori corollari (che sono desumibili dal libro): ad “infastidire” Generali ha, probabilmente contribuito la Società Tripcovich che, ad un certo punto, pretese di essere lei a realizzare la propria sede fronte mare relegando la Compagnia di Assicurazioni in seconda fila. Con quali risorse è un mistero
perché la Tripcovich, un paio d’anni dopo, venne dichiarata fallita.

E poi se proprio si vuole continuare a considerare responsabile la classe politica locale – inseguendo il mainstream che va per la maggiore – perché prendersela solo con coloro che governavano la città alla fine degli anni ’80? Nel maggio del 1992 era stata approvata la variante al Piano Regolatore che avrebbe consentito (pur con il problema della sua realizzazione in area demaniale che è stato risolto solo nel 2014 con l’emendamento sulla sdemanializzazione proposto dal senatore Francesco Russo) di costruire la
nuova sede delle Generali in Porto Vecchio. Probabilmente qualcuno, negli anni successivi, se l’era dimenticata nei cassetti.

Non trovano spazio nella ricostruzione di un dirigente della Società che ha seguito, passo dopo passo, le vicende che ricorda i gossip del pettegolezzo cittadino che sono la fotografia di un’inettitudine di quella che avrebbe dovuto essere una classe dirigente locale che tenta, a posteriori, di scaricare sull’uno o
sull’altro le ragioni di un fallimento che è collettivo.

Alcune rivelazioni contenute nel libro potranno essere sorprendenti per molti e smentiscono i luoghi comuni che si sono sedimentati in città. C’è una mia osservazione di fondo che non emerge esplicitamente dai contributi e dalle testimonianze raccolte e che può valere come monito per il futuro: Trieste, anche quando ha interloquito con i colossi della finanza, non ha saputo cogliere (e il riferimento è agli ultimi decenni) le dinamiche delle scelte d’investimento nel mondo d’oggi pensando di poter godere di una rendita di posizione per la sua storia. Questo atteggiamento ha impoverito la città. Mi preoccupa se la stessa mentalità dovesse trovare spazio nella prossima sfida: la riqualificazione del Porto Vecchio.

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