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Massimiliano Fedriga e Stefano Patuanelli

Ferriera di Trieste: un addio che è storia, nel teatrino della politica

Con la sottoscrizione dell’accordo di programma tra tutti i soggetti privati e istituzionali si è chiuso l’ultimo capitolo della controversa storia della siderurgia a Trieste. La ferriera da ultimo era venuta a trovarsi coinvolta nella crisi dell’ex gruppo Lucchini sotto la gestione commissariale.

A livello territoriale sono venute progressivamente aumentando nei cittadini le aspettative per la chiusura di un impianto il cui impatto ambientale era divenuto insostenibile. Il gruppo Arvedi sbarca a Trieste in tale situazione e va riconosciuto che ciò permette l’uscita dalla gestione commissariale, ma ripartono anche le proteste dei cittadini ai quali la politica, il centrodestra in particolare da anni prometteva la chiusura dell’attività siderurgica.

In questa temperie politica e sociale il gruppo Arvedi presenta alle parti le linee del programma per lo sviluppo dell’area, dove saltano subito all’occhio le considerazioni sul futuro dell’area a caldo (altoforno cokeria agglomerato): “l’area a caldo proseguirà per una prima fase, poi verrà valutata la convenienza economica in base al prezzo della ghisa importata”. È chiaro che queste considerazioni “certificano” che non è la presenza dell’area a caldo l’elemento strategico che porta il gruppo Arvedi a rilevare la ferriera.

Di fatto unitamente all’insediamento del laminatoio a freddo, la banchina diventa il terminale a mare della filiera logistico portuale che fa capo a Cremona. La politica si divide con il centrodestra impegnato a sollecitare la chiusura e il centrosinistra attestato su “coniugare salute e lavoro”, nella sostanza a difesa dell’area a caldo la cui fine era paventata già nelle considerazioni dello stesso imprenditore. Non c’erano forse le condizioni per aprire da subito con l’imprenditore un confronto costruttivo per definire condizioni e tempi di un accordo programmatico che dia garanzie a tutti i soggetti in campo. Anche perchè iniziavano a svilupparsi i prodromi di una nuova visione dello sviluppo logistico portuale e la necessità di nuove aree.

Passano invece cinque anni di teatrino della politica, per arrivare ad un accordo di chiusura dell’area a caldo dopo oltre ben tre mesi dall’accordo sindacale che ne aveva decretato materialmente la chiusura. Alla fine in una partita da oltre 300 milioni, tra risorse private e pubbliche (anche a fondo perduto) scopriamo che in una dimensione occupazionale che coinvolge 580 lavoratori, 163 rimangono in sofferenza, perchè su di loro si sprecano solamente impegni verbali della politica e delle istituzioni.

Rimane poi la singolarità di un accordo sindacale sottoscritto al buio dell’accordo di programma, e la grande magia della decarbonizzazione utile a spegnere quello che era già ampiamente previsto venisse spento…per ragioni economiche…a prescindere dalla questione ambientale.

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